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Trento, 7 maggio 2012
Trento e la strategia della tensione
Quelle stragi rimaste senza colpevoli

di Marco Boato
da l’Adige di lunedì 7 maggio 2012

Siamo sereni, perché è stato fatto tutto il possibile. Ormai, questa è una vicenda che va affidata alla storia, ancor più che alla giustizia»: con queste icastiche parole il pm Roberto Di Martino ha commentato sabato 14 aprile 2012 la sentenza di assoluzione, con cui si è concluso il processo in Corte d’assise d’appello per la strage di Brescia del 28 maggio 1974. Parole che nascondevano l’amarezza di una sconfitta e una profonda delusione, anche umana, per l’esito fallimentare del processo.

Il magistrato, insieme al suo collega Francesco Piantoni, aveva davvero fatto di tutto per portare alla luce la verità anche in sede giudiziaria, pur a distanza di 38 anni da quella orribile strage, verificatasi in Piazza della Loggia nel corso di una manifestazione antifascista promossa dalle tre organizzazioni sindacali, nel pieno della strategia della tensione che aveva cominciato ad insanguinare l’Italia dal 1969.

Come già si era verificato nel processo di primo grado con gli stessi imputati (ma altri processi sulla stessa strage, con altri imputati, avevano avuto in passato lo stesso esito), a fronte delle richieste di condanna all’ergastolo per i nazi-fascisti veneti di «Ordine Nuovo» Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte(quest’ultimo anche confidente dei servizi segreti) e per il generale dei carabinieri (all’epoca capitano) Francesco Delfino, la sentenza della Corte d’assise d’appello, presieduta dal giudice Enzo Platè, ha rinnovato la pronuncia di una sentenza di assoluzione. Con questa agghiacciante aggiunta (come si era già verificato nell’ultimo processo, con esito analogo, per la strage di Piazza Fontana): «condanna le parti civili al pagamento delle spese processuali». Rimaste senza giustizia per 38 anni, dunque, le parti civili – cioè i parenti delle vittime morte o le vittime stesse rimaste ferite – hanno subìto l’ultima beffa, fortunatamente attenuata – di fronte alla generale indignazione - dalla decisione del Governo Monti (anche il governo era parte civile nel processo) di accollarsi tutte le spese anche per le altre parti civili.

Il presidente della Associazione dei familiari delle vittime, Manlio Milani, era presente anche lui quel 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia a Brescia e vide saltare in aria la moglie Livia e un gruppo di amici, con i quali la sera prima aveva deciso di partecipare alla manifestazione.

In questi decenni non ha mai cessato, con ferma determinazione e con grande equilibrio, di impegnarsi per far perseguire dalla magistratura i mandanti e gli esecutori della strage, girando contemporaneamente l’Italia – soprattutto nelle scuole e nelle università (qualche tempo fa anche a Trento, nella facoltà di Giurisprudenza) – per portare la sua testimonianza, affinché non cali l’oblio su quel crimine orribile e in generale sulla strategia della tensione, che ha dilacerato l’Italia per tanti anni.

Questo il suo commento a caldo, dopo l’ennesima sentenza di assoluzione: «Ci fu un disegno eversivo, ma anche istituzionale, messo in atto nel contesto politico italiano dei primi anni Settanta, ovviamente inserito in quello internazionale». Un disegno «che ha potuto contare su una serie incredibile di coperture e depistaggi, scattati fin dalle prime ore, da cui derivano le assoluzioni di oggi». E ancora: «C’è la prova che gli apparati dello Stato seppero quasi subito chi organizzò l’attentato, ma hanno taciuto e nascosto la verità».

Non molto dissimili sono state le ulteriori dichiarazioni – dopo quella iniziale di sconforto e quasi di abbandono del campo – del magistrato d’accusa Roberto Di Martino: «L’impegno da parte nostra è stato massimo, abbiamo ricostruito quello che accadde; ma pesano soprattutto i depistaggi degli anni passati. I servizi segreti erano informati degli attentati che si andavano preparando: perché tennero quelle carte nei cassetti? Perché quei documenti sono stati scoperti casualmente solo nel 1992?».

Dunque, nessun colpevole per la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 a Milano, così come per la strage di Brescia del 28 maggio 1974 a Brescia e come anche per la strage sul treno«Italicus» a San Benedetto Val di Sambro (Bologna) del 4 agosto 1974. Per la strage di Peteano (Gorizia) del 31 maggio 1972 è stato invece condannato un neo-fascista reo confesso, Vincenzo Vinciguerra, dopo ripetuti depistaggi nei quali ebbero un ruolo preminente ufficiali dei carabinieri, nonostante le vittime fossero proprio tre carabinieri esplosi a causa di un’autotrappola.

E lo stesso Vinciguerra ha poi ricostruito rigorosamente i meccanismi di copertura delle stragi, messe in atto da militanti di estrema destra, ma con la complicità di settori degli apparati segreti e di polizia dello Stato.

Per il terrorismo politico di sinistra (Brigate rosse, Prima linea e altre formazioni minori) e anche di destra (Avanguardia nazionale, Nuclei di azione rivoluzionaria - NAR, Terza Posizione, Ordine nero) la verità giudiziaria e la verità storica sono arrivate, nel corso dei decenni e di innumerevoli processi, tendenzialmente a coincidere. Invece, per la strategia «stragista», frutto della strategia della tensione che trova le sue origini nella «guerra non ortodossa» già alla metà degli anni ’60 (ben prima, quindi, di Piazza Fontana), ci si trova di fronte ad una totale divaricazione.

Salvo che per la strage di Peteano (ma solo perché in quel caso si è riusciti a far emergere i depistaggi ed è poi comparso un reo confesso, che ha inteso denunciare i meccanismi di copertura istituzionale nell’utilizzo dei militanti di estrema destra) e salvo che per l’esito processuale della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 (un esito che ha lasciato numerose perplessità e che in futuro potrebbe portare ancora a qualche sorpresa, non essendo mancati neanche in quel caso ripetuti depistaggi istituzionali), per le principali stragi che hanno insanguinato l’Italia, in sede giudiziaria, sono emersi sterminati materiali documentari sul ruolo dei gruppi neo-fascisti e nazi-fascisti, ma, a causa delle coperture e dei depistaggi istituzionali, non si è riusciti ad arrivare a sancire le responsabilità penali personali. Sarebbe tuttavia un grave errore indulgere ad una «vulgata» superficiale e fuorviante, secondo cui su quelle stragi «non si sa nulla». Si sa invece moltissimo, perché nel corso dei decenni sono emersi i meccanismi di copertura e di complicità e sono apparsi alla luce in tutti i processi i ruoli soprattutto dei gruppi nazi-fascisti veneti, anche se la magistratura giudicante non ha ritenuto di avere prove sufficienti per emettere sentenze di condanna. Ma gli atti istruttori, i materiali di indagine, le motivazioni delle sentenze – anche quelle di assoluzione – rimangono e costituiscono ormai una documentazione vastissima e impressionante.

Pochi ormai lo ricordano, ma Trento all’inizio degli anni ’70 era stata teatro di uno dei capitoli della strategia della tensione, che aveva fatto emergere molti elementi di verità sul ruolo degli apparati «paralleli» (e non solo) dello Stato. Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1971 fu ritrovato davanti al Palazzo di Giustizia di via San Francesco un ordigno, con l’innesco «a pendolo», che sarebbe stato destinato ad esplodere la mattina dopo nel corso di una manifestazione studentesca davanti allo stesso Tribunale per un processo a due operai. Sarebbe stata una carneficina, con decine di morti (almeno 50, disse poi il perito), e la responsabilità sarebbe stata attribuita agli stessi studenti. Nel corso di una lunga indagine, di cui io stesso fui protagonista in collaborazione con la magistratura inquirente (l’allora pubblico ministero Gianfranco Jadecola), venne scoperto che i due presunti autori della mancata strage erano due confidenti al servizio plurimo degli apparati dello Stato, per cui si giunse non solo al loro arresto, ma alla carcerazione di un vicequestore della polizia, di un colonnello dei carabinieri e di un colonnello del SID (il servizio segreto militare). Rinviati tutti a giudizio, furono tuttavia tutti assolti dal Tribunale di Trento, chi con formula piena e chi «per insufficienza di prove».

Anche in quel caso, dunque, una totale divaricazione tra verità giudiziaria e verità storica. Ed è singolare che chi ricostruisce le vicende storiche degli anni ’70 a Trento sia spesso così smemorato o così reticente nel ricordare quella terribile vicenda, che solo per caso non provocò una strage di proporzioni ancora maggiori di quelle di Brescia o di Milano. Del resto, in recenti indagini d’opinione fatte sugli studenti attuali di Milano, è emerso che la maggior parte di loro non sa nulla della strage di Piazza Fontana o che molti di loro ritengono trattarsi di un crimine commesso… dalle Brigate rosse. La strage è del 12 dicembre 1969 e le Brigate rosse sono nate nel 1971 ed hanno commesso il loro primo duplice omicidio a Padova nel giugno 1974. Dunque, qui non si tratta né di verità storica né di verità giudiziaria, ma semplicemente del fatto che nella memoria è rimasto solo il terrorismo di sinistra e che tutto il resto è stato cancellato o divorato in un vortice di ignoranza abissale.

Bisognerà dunque non arrendersi all’oblio, e neppure alle versioni romanzate di queste vicende. Proprio nei giorni della sentenza di Brescia, è uscito nei cinema il film di Marco Tullio Giordana(un ottimo regista, per altri aspetti) dedicato alla strage di Piazza Fontana, con il titolo «Romanzo di una strage». Pur ben recitato e fortemente coinvolgente sul piano scenico, purtroppo il film stravolge gravemente la verità dei fatti storici e persino quella giudiziaria comunque acquisita. Alla fine lo spettatore ignaro ne esce con una gran confusione tra anarchici e neo-fascisti veneti, alimentata dal pressappochismo di un recente libro (di Paolo Cucchiarelli) cui il film si è in parte ispirato.

Non si è fatto un buon servizio in questo modo né alla memoria storica (per la quale voglio ricordare l’ottimo Piazza Fontana di Giorgio Boatti per Einaudi), né a quella parte di verità che pur è stata accertata sul piano giudiziario. Le stragi sono state un fatto terribile nella storia italiana: trasformarle in un «romanzo» fantapolitico non aiuta né chi ha vissuto quel tragico periodo a ricordare, né le giovani generazioni a conoscere e soprattutto a capire.

Marco Boato

 

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